8 Aprile 2006, Rifugio Giâf (Dolomiti Friulane)
Alle otto e mezza, più o meno, partiamo da Udine, anzi da Cussignacco (che é un po' il centro dell'universo conosciuto). Raggiungiamo Buja per recuperare Alb, che impaziente per un ritardo minimo (5 minuti) ci telefona quando siamo già in vista del cupoloide vicino casa sua. Scoperta la defezione di uno dei quattro componenti la spedizione, carichiamo tutto sul mio "possente" motomezzo e ci dirigiamo verso la montagna, discutendo sulla meta che, come al solito, non abbiamo stabilito in anticipo.
Optiamo per una passeggiata fino al rifugio Giâf (1), nelle Dolomiti Friulane, partendo da Forni di Sopra. Ci siamo stati d'estate, Alb ed io, fino alla forcella Scodovacca, e la gita mi é piaciuta molto. Alb non si ricorda rigorosamente nulla. Quel giorno era cotto, tant'é vero che si addormentò seduto su una pietra dopo avere sceso di corsa il ghiaione dalla forcella del torrione Berti.
Alla solita pausa a Vile (Villa Santina per gli alloctoni) ci riforniamo di capuccino e brioches calde, nel nostro abituale bar panificio di fiducia. Il cielo é perfettamente pulito e risalendo la valle del Tagliamento si vede il Tinisa, stagliato contro il blu, con le cenge meridionali ancora piene di neve. E' uno spettacolo degno di cime ben più celebrate.
Superato Forni di Sopra, sulla strada per la Mauria, prendiamo a sinistra la stradina che porta dentro la valle di Giâf. Vedo davanti a noi neve, battuta, ma pur sempre neve. Memore della grandiosa figuraccia rimediata sulla strada del Falzarego ad inizio stagione, decido di non proseguire oltre. Ci toccherà una noiosa pre-camminata fino al ponte dove c'é il divieto d'accesso. Parcheggiamo a lato strada di fronte ad un grosso stali (2), dove un uomo con folti baffi sta badando ad un cavallo da lavoro ed un paio di asini. Mentre ci cambiamo, operazione lunga e comica, si informa sulla nostra meta. Dato che si rivolge a noi parlando friulano il Pulpi mi fa notare, sotto voce, "é meglio che ci parli tu". Inserisco la modalità "montagna" nel mio lessico ad alta variabilità e chiacchiero un po' con il simpatico indigeno. E' molto socievole e mi chiede se siamo della SAF (Società Alpina Friulana). In effetti io sono socio della SAF, gli altri due no, ma la mia associazione é un puro fatto formale, una tradizione di famiglia che non mi dà alcuna sensazione di appartenenza.
Partiamo, infine, e rapidamente superiamo la chiazza di neve che tanto mi aveva preoccupato, scoprendo una strada perfettamente asfaltata e pulita. Ci viene incontro un uomo su una Panda 4x4, nuova di pacca, e si ferma a scambiare due parole. La strada é tutta pulita fino al parcheggio prima del ponte. Una camminata sull'asfalto a vuoto. Iniziamo bene. Ma tornare a prendere l'auto mi scoccia. Proseguiamo.
Sui sacchi da montagna siamo carichi come muli. Abbiamo le ciaspe che troneggiano e le picozze, prese perché non si sa mai. In verità vorremmo arrivare a Scodovacca e giocare un po' su qualche canale, se lo troviamo duro. Ma il caldo non fa sperare nulla di buono. Siamo tutti tre in maglietta, anzi, il Pulpi in canottiera, sfidando i primi ultravioletti primaverili. Mi rendo conto di non avere crema solare, ma per fortuna mi sono ricordato lo stick per le labbra. La neve all'inizio sembra buona, nel bosco. A tratti si sprofonda, anche perché sul sentiero che abbandona la strada, non c'é passato nessuno dall'ultima nevicata. La strada, invece, é solcata da tracce di sci. Noi preferiamo il sentiero, anche se al bivio simuliamo una votazione. Alb ha dichiarato all'inizio dell'inverno che non vuole più camminare su piste forestali. Ovviamente io ed il Pulpi fingiamo di volere seguire la strada.
Il percorso é proprio bello, all'ombra, su neve che regge abbastanza. L'importante é tenersi sul sentiero estivo. Arriviamo dove il bosco termina bruscamente. Sul pendio alla nostra sinistra quello che evidentemente é il termine di un canale di valanga, oltre il rio, sulla destra, una mugheta coperta di neve. Un segnale ingannevole su un masso ci fa attraversare il rio Giâf ed iniziare una disperata ricerca della traccia, fra mughi coperti che creano vere trappole vietnamite. Perdiamo così un'ora circa, cucinandoci nel sole, per guadagnare appena una cinquantina di metri di quota. Scarsi. Alb propone di tentare il pendio sul versante opposto, che se non altro sembra libero da mughi. Io impreco fra me contro sti maledetti barancs (3), ma quel pendio mi sembra una trappola carica di neve marcia e profonda. Alla fine si decide di seguire ancora per un pezzo il rio, saltando sulle pietre, in modo da non affondare nella neve sulle sponde.
Mentre risaliamo come salmoni il rio mi ricordo che il sentiero per il rifugio lo attraversa su un ponticello di tronchi. Dunque abbiamo sbagliato tutto. O il ponticello non c'é più, o il sentiero traversa più a monte. Il povero ponticello compare all'improvviso, diligentemente al suo posto, dimostrando che siamo stati fregati da quel malefico segno sul masso. Insisto nel pensare che chi fa i segni sui percorsi alpini abbia la funzione del mazarot di un tempo: fare perdere i viandanti.
Raggiunto il ponticello ci fermiamo brevemente a fare rifornimento energetico. Cioccolata, caffé al profumo di grappa (dire corretto sarebbe troppo), acqua. Alb riparte indossando le ciaspe. Io ed il Pulpi pensiamo di proseguire senza, ma dopo pochi metri le gambe vengono ingoiate dalla neve, accumulata dal vento fra gli alberi. Indossiamo gli attrezzi, che quest'anno ci hanno sempre serviti bene. Dopo qualche decina di metri la neve scompare. Tocca levare le ciaspe. Ma ecco ricomparire la neve dopo un breve tratto pulito. Ritoriamo ad indossare le ciaspe. Il percorso con leggera pendenza punta dritto verso il rifugio, che raggiungiamo in breve dopo avere superato gli edifici della vecchia malga.
Rimaniamo ancora una volta allibiti di fronte alla piccola struttura per arrampicata su artificiale che c'é dietro il rifugio Giâf. Alb efficacemente dice che e' come un freezer per esquimesi e si lancia in una invettiva contro "questa gente del cazzo" che, magari, sale in jeep per arrampicare su artificiale quando, a mezz'ora di cammino, ci sono pareti dolomitiche di grande effetto panoramico. Questa volta non posso dissociarmi dalle sue lamentele. Le Alpi sono piene di cose assurde fatte per rendere più "piacevole" e più "comoda" la montagna, quando il significato stesso di andare in montagna sta nell'adattare noi stessi all'ambiente, e non viceversa. Per lo meno, io ho sempre inteso così l'andar per monti.
Al rifugio un paio di panche libere dalla neve invogliano a prendere il sole, più che a proseguire il cammino verso forcella Scodovacca. Le gambe, almeno per quanto mi riguarda, si sono cucinate a sufficienza con quei 400 metri di dislivello sul marcio. Ciò che i grandi abeti lasciano vedere delle cime attorno é uno spettacolo di grande bellezza. La neve sta cedendo e dalle falde del tetto del rifugio cade molta acqua. Rimaniamo a cucinare la pelle per un po', distesi come lucertole. Poi prendiamo a giocare un po' con le picozze, tanto per mostrare un paio di posizioni di assicurazione ai due "baldi giovini". Devastiamo un piccolo pendio ed il risultato é interessante, perché riusciamo ad usare l'ancora con la picozza anche con la neve marcia.
Il ritorno si fa per la strada, cercando di evitare cortesemente le piste degli sciatori, come facciamo sempre. Arrivati all'auto ritroviamo l'amico dello stali che si informa sulla nostra gita e ci invita a bere un caffé da lui. Oltre che essere gentile fa un ottimo caffé, va detto, raramente ho bevuto un caffé casalingo così buono! Facciamo una chiacchierata sul bosco, il legnatico, mi racconta un po' di cose sul lavoro che lui ed altri fanno in Tragonia. Alb ed il Pulpi se ne stanno in disparte, un po' perché un discorso in friulano gli riesce ostico. Quando prendiamo l'auto per tornare in pianura il Pulpi considera che é un peccato non sapere parlare friulano, perché dà un senso di appartenenza. E' un punto di vista interessante. Per me usare questa lingua é naturale, per molti (che non la parlano) é visto come un modo per escludere, per arroccarsi, ma in effetti é anche un modo per definire una appartenenza, o una cortesia verso chi con questa lingua ci é cresciuto. Non solo, é curioso come l'umanità si commuova per l'estinzione di un orso bianco e nero, mentre veda come un fatto positivo l'estinzione di decine di lingue, fagocitate da un mondo che ha fretta e vuole uniformare tutto. Spianeranno anche le montagne? Per ora no, e noi ce le vogliamo godere, con lentezza, un passo dopo l'altro.
(1) Giâf: é una ampia valle che scende dal versante settentrionale delle Dolomiti Friulane, fra il gruppo del Cridola e quello dei Monfalconi. La valle termina con una conca, in parte erbosa, ed é stata in passato sede di pascolo. Il rifugio attuale sorge vicino alla vecchia malga. E' curioso notare che un'altra ampia valle e conca di pascolo ha un nome simile, ovvero la conca di Jou o Giau, nella valle del Boite. La somiglianza fra i due toponimi suggerisce due varianti dello stesso termine ladino. torna al testo
(2) Stali (flr, pl. stalis): tradotto malamente in italiano col termine "stavolo", indica una costruzione adibita ad uso temporaneo a bassa quota. Gli stalis venivano impiegati durante la bella stagione per ospitare le persone addette allo sfalcio od alla cura degli orti, raramente vi risiedeva anche del bestiame. Il fieno una volta asciugato veniva immagazzinato in un apposito locale dello stali e solo in seguito portato a valle, in paese, per nutrire il bestiame durante l'inverno. torna al testo
(3) Barancs (sing. baranc): é un termine personale che uso per indicare i mughi, la friulanizzazione della parola "barancio" che viene usata in Cadore e nelle valli ladine. In Friulano il mugo (Pinus mugo) si chiama alaz o barte, raramente barancli. Quest'ultima parola designa in genere il ginepro. Oggi gran parte dei friulani usa il termine "mugo" italiano, formando il plurale in modo ridicolo con "mugos". torna al testo